Stefano Faravelli è un artista, filosofo, orientalista e viaggiatore. L’ho incontrato durante il TEDx Lake Como dove ha fatto un talk molto interessante.
Non è facile ascoltare un artista ma alcune delle sue parole mi hanno colpito e la bellezza delle immagini dei suoi taccuini che illuminavano il maxi schermo mi hanno incuriosita.
Ho cercato di capire meglio. Sono andata a curiosare sul suo sito. Ho letto articoli che lo riguardano, non moltissimi a dir la verità. Eppure è un artista conosciuto in tutto il mondo e dai suoi meravigliosi viaggi ha riportato affascinanti taccuini esposti a Londra, New York, Parigi. Le sue pubblicazioni hanno aperto la via in Italia al genere del “Carnet de Voyage”.
I suoi disegni ad acquerello riescono a trasmettere l’emozione provata davanti ad un opera o davanti alla maestosità della natura e cercano, con la scrittura, di approfondirne il vissuto.
L’acquarello
La tecnica dell’acquarello rende tutto molto sofisticato e leggero. La luce esce dalla pagina e i particolari esaltano la bellezza dell’immagine.
Il taccuino è uno strumento facile e anche molto elegante. Piccoli appunti di viaggio che diventano storie, che raccontano la vita. Uno strumento che impone di fermarsi un attimo a guardare, scoprire, vedere, osservare meglio particolari, colori, sfumature per cercare di assorbirne l’energia.
Ascoltando questo artista, vedendo i suoi magnifici disegni, che non sarò mai in grado di replicare, ho ripensato molto al fatto che anch’io avevo sempre con me un piccolo taccuino oggi sostituito da un più moderno ipad. Ma non è la stessa cosa. Battere con le dita sui tasti non equivale a scrivere. Su questi piccoli oggetti è possibile scrivere, ma anche disegnare, fare schemi, scarabocchiare. Grazie a Stefano ho realizzato che mi manca l’odore della matita, mi manca il contatto con la carta. Mi manca scarabocchiare pensando. Quindi dal prossimo viaggio, taccuino! Grazie Stefano.
Interviste sul web
Queste alcune interviste che ho trovato sul web che raccontano l’arte di Stefano Faravelli.
Panorama del 26 marzo 2014
Descrivere Stefano Faravelli, torinese classe 1959, come un autore, pittore e viaggiatore, non sarebbe pienamente esaustivo. Faravelli assomiglia più ad un moderno flâneur che si aggira per il mondo con i suoi acquerelli alla mano e un bagaglio essenziale sulle spalle, che parte leggero e ritorna pieno. India, Egitto, Mali, Cina, Giappone: sono l’Africa e l’Oriente che lo affascinano. Dopo aver lavorato come scenografo e pittore per il Teatro dei Sensibili, dal 1994 ha pubblicato otto libri e taccuini di viaggio, e esposto le sue opere in in tutto il mondo. In attesa della pubblicazione del suo nuovo carnet de voyage realizzato durante un viaggio di un mese nella foresta malgascia lo scorso dicembre, vi presentiamo questo personaggio eclettico che sembra emergere da un’altra epoca.
Da dove nasce l’esigenza di dipingere in viaggio?
Come scriveva mirabilmente Baudelaire, ‘Nessuno è più adatto a gustare un paesaggio di colui che lo osserva per la prima volta, poiché la natura si presenta allora in tutta la sua estraneità, non ancora infiaccata da un troppo frequente sguardo’. Il viaggio è proprio questo, con il suo rompere le abitudini, il suo scardinare le assuefazioni della vita ordinaria. Il viaggio è riscoperta del mondo come tessitura di segni da interpretare e comprendere. Viaggiare con il taccuino, disegnando come faccio da anni, è il mio modo di comprendere (etimologicamente: di fare mia) questa tessitura.
Il carnet de voyage è scrivere e disegnare: qual è il suo rapporto con la scrittura?
Il testo esprime il pensiero, che è nel cuore stesso del visibile; non per niente ‘Idea’ ha la stessa etimologia di vedere. I miei testi non sono solo didascalie delle immagini, ma altre immagini, espresse in altro modo. Poi c’è da considerare l’importanza della calligrafia, forma d’arte tra le maggiori in Oriente (Cina, Giappone, Islam). In un calligramma cosa è figura e cosa è scrittura? Forse l’esempio più perfetto di ciò che ho in mente sono i mappamondi medioevali: trovo straordinario come scrittura e immagine si intrecciassero in essi a formare un vero e proprio supporto per derive meditative. Non erano uno strumento per orientarsi tra meridiani e paralleli, descrizioni ‘orizzontali’ del mondo, bensì ‘macchine mistiche’, dove scritto e figura consentivano pellegrinaggi mentali e morali, autentici viaggi letterari per gente che non si muoveva.
Spesso quando si viaggia si dimentica presto quello che si è visto. Realizzare un carnet de voyage è una buona soluzione per ricordare?
Non è tanto la mia memoria personale in gioco. Piuttosto, se così posso dire, la memoria del luogo. Viaggio molto nel passato: i miei sono viaggi nel tempo, in verità. In questo senso la preparazione “ante viaggio” è fondamentale, naturalmente. Per il Giappone ad esempio non ho consultato neppure una guida, ma mi sono letto tutto Mishima e Tanizaki, i testi Zen e Murasaki, Harris e Fosco Maraini. Per tacere del mio rapporto con la tradizione figurativa di quel paese che ispira il mio lavoro da anni: una volta lì mi sembrava di esserci già stato infinite volte, con altri occhi. La pagina deve contrarre il tempo e lo spazio per poterlo poi sprigionare sul doppio versante narrativo e simbolico.
Come viaggia (solo o in compagnia, mezzi pubblici o auto, tenda, albergo o nelle case della popolazione locale…)?
Detesto gli slogan come ‘la riscoperta del viaggio lento’ ecc. Ogni viaggio ha il suo ritmo,la sua regola, la sua storia: il più delle volte è il viaggio stesso a dettarla. Ho soggiornato in alberghi famosi e bellissimi, ma anche dormito su un materassino steso lungo una strada.
Lungo il Niger ho navigato sulla Gran Pinassa, un barcone rugginoso che fa la spola tra Mopti e Timbouctù, in una sconvolgente promiscuità di animali, merci e passeggeri stipati in coperta. Sul Nilo, invece, avevo un sandalo tutto per me con cinque membri di equipaggio e un cuoco. Sono molto adattabile: nel mio ultimo viaggio ho soggiornato per giorni nel cuore di una foresta pluviale, dormendo in tenda, bevendo acqua dal torrente e mangiando solo riso e fagioli.
Usa device tecnologici durante i suoi viaggi per raccogliere materiale? Ha un senso il carnet di viaggio digitale?
Niente in contrario che altri creino carnet digitali, ma a me non interessa. La protesi tecnologica può essere un impedimento sotto molti aspetti: paura di furti o di guasti, batterie da ricaricare (come fare nella foresta?),controlli da parte delle autorità locali (ricordo i computer di amici ‘frugati’ per ore dalla polizia israeliana, mentre io li aspettavo dall’altra parte del check-in). Soprattutto non voglio rinunciare al disegno perché esso rende possibile una fusione con la cosa vista in una sorta di andirivieni, estremamente complesso, dello sguardo, della mano, degli impulsi che viaggiano nella corteccia cerebrale e che sono tutt’uno con essa e con l’atmosfera in cui è immersa: quando disegno una cosa divengo un po’ quella cosa. Al contrario, il ‘diaframma meccanico’ esclude questa intimità fatta di tempo, di osmosi. Detto ciò una macchina fotografica tascabile può essere molto utile, un modo di prendere appunti, ma non vado al di là di questo.
Se vi siete incuriositi potete visitare il suo sito web Stefano Faravelli